A.T. è persona maggiorenne divenuta, nel corso degli anni, totalmente incapace di intendere e di volere. Il suo amministratore di sostegno chiede perciò al giudice tutelare di Pavia, dott.ssa Michela Fenucci, i poteri per assumere tutte le decisioni in ambito sanitario nell’interesse di A.T.
Siamo nel marzo 2018 e, entrata in vigore la l. n. 219/2017 in tema di “fine vita”, il giudice pavese pone un dubbio: l’art. 3 di questa legge conferisce all’amministratore di sostegno il potere di rifiutare e di sospendere ogni trattamento anche vitale, incluse alimentazione e idratazione artificiali, a costo della morte del paziente. Il giudice emana perciò una ordinanza con la quale sottopone alla Corte costituzionale la questione della conformità di detta previsione legale con quegli articoli della Costituzione da cui si ricava la protezione di diritti fondamentali quali il diritto alla vita, alla salute, alla libertà personale. Quantomeno – si afferma nell’ordinanza – il giudice tutelare dovrebbe essere investito del caso, al fine di valutare se, in assenza di “testamento biologico”, il paziente abbia mai manifestato l’intenzione di rifiuto o sospensione di terapie salvavita. Nel procedimento dinanzi alla Corte intervengono, a sostegno dell’ordinanza e con ulteriori argomenti, anche le Unioni Giuristi Cattolici di Piacenza e di Pavia.
Il 13 giugno 2019 la Corte, con sentenza n. 144, ritiene sì infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal giudice Fenucci ma, in sostanza, ne recepisce le preoccupazioni. La Corte, infatti, interpreta il citato art. 3 alla luce della generale disciplina del codice civile sull’amministrazione di sostegno. La normativa complessivamente considerata – sostiene la Corte – consente all’amministratore di assumere decisioni di ordine sia patrimoniale, sia personale (ad es. in ambito sanitario), solo se il giudice gli conferisce espressamente ed esplicitamente un potere in proposito.
Per conseguenza, l’amministratore potrà prendere decisioni di fine vita a riguardo del proprio amministrato solo se il giudice lo abbia autorizzato, non semplicemente a occuparsi ordinariamente della sua salute, ma ad adottare, eventualmente, quelle decisioni estreme di sospensione o rifiuto menzionate dall’art. 3 della l. n. 219/2017. E il giudice potrà conferire simile potere solo dopo aver adeguatamente accertato le intenzioni (anche espresse in passato) del paziente e la sua concreta e attuale situazione. A tal fine, l’amministratore può essere obbligato ad aggiornare periodicamente il giudice sulle condizioni del paziente, specie allorché il quadro clinico muti significativamente.
In definitiva secondo la Corte la legge – nonostante la contraria apparenza della lettera – non dà “automaticamente” all’amministratore un potere di vita e di morte sul proprio amministrato, ma questi dovrà chiedere al giudice i poteri speciali di decisione sul fine vita. E il giudice non sarà obbligato a conferire tali poteri: anzi, non dovrebbe proprio conferirli almeno ove non risulti che l’amministrato abbia mai manifestato l’intenzione di non essere curato.
Qui, certo, la legge lascia una certa discrezionalità ai giudici. Si auspica che, nella prassi, questi autorizzino la sospensione dei trattamenti vitali solo nei casi di accanimento terapeutico.
Marco Ferraresi