Pubblicato sul sito dell'Osservatorio Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa (v. qui)
Marco Ferraresi
Presidente Unione Giuristi Cattolici di Pavia “Beato Contardo Ferrini”
Ricapitolando: Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, dopo un grave incidente stradale diviene cieco e tetraplegico. Soffre per gli spasmi e le contrazioni da cui è percorso e necessita per vivere dell’idratazione, dell’alimentazione e, in parte, della ventilazione artificiale. Resta però capace di intendere e di volere. Falliti i tentativi terapeutici per migliorare la sua condizione, egli stesso decide per il suicidio assistito presso un ente svizzero. Ad accompagnarlo è il sig. Marco Cappato, che è perciò imputato per il reato di aiuto al suicidio (art. 580 del codice penale). Il Tribunale di Milano, tuttavia, dubita che la norma sia costituzionalmente legittima e rimette la questione alla Corte costituzionale. Con ordinanza n. 207/2018, la Corte accoglie in parte gli argomenti del Tribunale.
L’ordinanza comincia bene: afferma che è riconosciuto a livello nazionale e internazionale il diritto alla vita e non alla morte e, dunque, non sussiste un diritto a essere aiutati a morire. Poi però la Corte sterza e, contraddicendosi, deraglia.
Il sig. Antoniani, dice il giudice costituzionale, avrebbe potuto avvalersi della legge sul fine vita (n. 219 del 2017): essa già permette, a costo della morte, di interrompere ogni terapia e i sostegni vitali, anche se del caso obbligando il medico a cooperare attivamente. E comunque beneficiando della sedazione palliativa profonda continua per attenuare il dolore.
Con ciò, in sostanza, la Corte ammette quello che i commentatori più schietti avevano da subito colto (al contrario di quelli, specie tra i cattolici, che fingevano di non vedere): che, cioè, la legge n. 219 del 2017 ha introdotto l’eutanasia in Italia. Del resto, la recente sentenza n. 144/2019, della medesima Corte, ha confermato il principio, con riguardo al caso del rifiuto o della sospensione dei trattamenti per le persone soggette ad amministrazione di sostegno. Detti rifiuto o sospensione possono essere disposti dall’amministratore di sostegno, purché – qui sta la precisazione della Corte, che mitiga sul piano procedurale i poteri dell’amministratore – egli venga a ciò espressamente autorizzato dal giudice tutelare, che deve valutare la condizione del paziente.
Quello che la legge n. 219/2017 però non concede è il diritto a un farmaco letale che uccida in tempi più brevi. La cultura della morte ha una sua logica e la Corte ne trae le conseguenze. Se ho diritto a morire di fame e di sete, perché, a questo punto, non dovrei avere diritto a una morte più rapida e “dignitosa”? La Corte ritiene che questa limitazione sia ingiustificata e incostituzionale. Occorre dunque che il Parlamento entro il prossimo 24 settembre (sorvoliamo qui sulla libertà di procedura che la Corte si è presa per l’occasione) riconosca il diritto a essere soppressi, ma “solo”: a) nell’ambito della relazione medico-paziente; b) per i malati inguaribili; c) che soffrano a un livello che ritengono intollerabile; d) che siano sottoposti a trattamenti di sostegno vitale; e) ma siano in grado di decidere autonomamente.
Che fare, ora che la Corte ha sfidato il Parlamento? A ben vedere esso, forte del proprio ruolo di rappresentante della volontà popolare, dovrebbe rispondere alla sfida con provvedimenti che, al contrario, tutelino il diritto alla vita – fondamentale e indisponibile – in ogni sua fase e condizione.
Tra i progetti di legge presentati, uno solo, però, non reca un contenuto eutanasico. Merita di essere preso in considerazione. Si tratta della proposta di legge (p.d.l.) n. 1888, presentata il 5 giugno 2019, avente come primo firmatario l’on. Alessandro Pagano.
Tale progetto è certo condivisibile nella parte in cui sancisce il diritto alla obiezione di coscienza per il personale medico, con riguardo alla applicazione della legge n. 219/2017; esclude la natura di trattamenti sanitari dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali (per vero, sarebbe stato opportuno aggiungere anche la ventilazione), dovendosi piuttosto ritenere sostegni vitali; promuove l’applicazione della terapia del dolore; garantisce l’intervento del personale sanitario in condizioni di urgenza, in attesa dell’eventuale intervento del giudice tutelare; semplifica le modalità di revoca delle disposizioni anticipate di trattamento.
Desta invece perplessità l’articolo 1 di questo progetto di legge. Con l’intento di accogliere, nella misura meno negativa possibile, il monito della Corte costituzionale a rivedere la disciplina di cui all’art. 580 del codice penale, esso prevede una diminuzione di pena nel caso in cui la soppressione del malato sia attuata da un convivente. Per la precisione, la diminuzione di pena scatterebbe in presenza di alcuni requisiti: la vittima deve essere “tenuta in vita solo mediante strumenti di sostegno vitale” e deve essere altresì “affetta da una patologia irreversibile”, che sia anche “fonte di intollerabile sofferenza”. Dal lato dell’autore del reato, costui deve essere convivente stabile del malato e agire in stato di “grave turbamento determinato dalla sofferenza dello stesso”.
Le condizioni, dunque, al ricorrere delle quali è applicabile la diminuzione di pena sono stringenti e, in questo senso, astrattamente condivisibili. Il punto, allora, è verificare il quantum di abbattimento della sanzione.
Attualmente, il reato di aiuto al suicidio è punito di base con la pena della reclusione da un minimo di 5 a un massimo di 12 anni. In una situazione di grave turbamento psichico, come quella prevista dalla proposta dell’on. Pagano, già oggi il giudice potrebbe applicare le circostanze attenuanti generiche, e ridurre la pena in misura non eccedente un terzo. Si potrebbe dunque ritenere che il diritto vigente già consenta di tenere conto delle particolari circostanze in cui il delitto è perpetrato.
Ammettiamo comunque che, per scongiurare un intervento più invasivo sull’art. 580 c.p. da parte della Corte costituzionale, sia opportuno un intervento del legislatore, con una speciale diminuzione della pena in presenza di gravi condizioni, come quelle rappresentate dalla p.d.l. n. 1888.
Essa prevede che, in dette circostanze, si applichi la pena della reclusione da 6 mesi a 2 anni. Il problema della proposta di legge sta esattamente in questo punto. Lo sconto di pena appare eccessivo e ingiustificabile. E questo non solo perché risulta sproporzionato in relazione a un delitto che investe pur sempre il bene primario della vita umana. Ma anche perché, per il codice penale, una condanna non superiore a due anni consente al giudice di applicare in favore del reo la sospensione condizionale della pena, il che comporta una sostanziale impunità per l’autore del delitto. In questi termini, la proposta avanzata dall’on. Pagano riduce la gravità del misfatto a un livello persino inferiore al furto.
Seppure si comprenda come la proposta sia indotta dal timore suscitato dall’ordinanza della Consulta, occorre domandarsi seriamente quale sia la strategia migliore per la difesa dei principi non negoziabili. Sul punto, appaiono accurate e condivisibili le considerazioni dell’Osservatorio Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa, pubblicate lo scorso 9 luglio, che ci ricordano come “oltre che moralmente inaccettabile, la scelta del male minore è anche politicamente perdente”.