La Corte costituzionale e l’aiuto al suicidio
Ricapitolando: Fabiano Antoniani, noto come dj Fabo, dopo un grave incidente stradale diviene cieco e tetraplegico. Soffre per gli spasmi e le contrazioni da cui è percorso e necessita per vivere dell’idratazione, dell’alimentazione e, in parte, della ventilazione artificiale. Resta però capace di intendere e di volere. Falliti i tentativi terapeutici per migliorare la sua condizione, decide per il suicidio assistito presso un ente svizzero. Ad accompagnarlo è il sig. Marco Cappato, che è perciò imputato per il reato di aiuto al suicidio (art. 580 del codice penale). Il Tribunale di Milano, tuttavia, dubita che la norma sia costituzionalmente legittima e rimette la questione alla Corte costituzionale. Con ordinanza depositata di recente, la Corte accoglie in parte gli argomenti del Tribunale.
L’ordinanza comincia bene: è riconosciuto a livello nazionale e internazionale il diritto alla vita e non alla morte e, dunque, nemmeno a essere aiutati a morire. Poi però la Corte sterza e, contraddicendosi, deraglia. Il sig. Antoniani, dice il giudice costituzionale, avrebbe potuto avvalersi della legge sul fine vita (n. 219 del 2017): essa già permette, a costo della morte, di interrompere ogni terapia e i sostegni vitali, anche se del caso obbligando il medico a cooperare attivamente. E comunque beneficiando della sedazione palliativa profonda continua per attenuare il dolore.
Con ciò, in sostanza, la Corte ammette quello che i commentatori più schietti avevano da subito colto (al contrario di quelli, specie tra i cattolici, che fingevano di non vedere): che, cioè, la legge n. 219 del 2017 ha introdotto l’eutanasia in Italia. Quello che questa legge però non concede è il diritto a un farmaco letale che uccida in tempi più brevi.
La cultura della morte ha una sua logica e la Corte ne trae le conseguenze. Se ho diritto a morire di fame e di sete, perché, a questo punto, non dovrei avere diritto a una morte più rapida e “dignitosa”? La Corte ritiene che questa limitazione sia ingiustificata e incostituzionale. Occorre dunque che il Parlamento entro un anno (sorvoliamo qui sulla libertà di procedura che la Corte si è presa per l’occasione) riconosca il diritto a essere soppressi, ma “solo”: a) nell’ambito della relazione medico-paziente; b) per i malati inguaribili; c) che soffrano a un livello che ritengono intollerabile; d) che siano sottoposti a trattamenti di sostegno vitale; e) ma siano in grado di decidere autonomamente.
Che fare? La Corte ha sfidato il Parlamento. Ora, esso risponda alla sfida con provvedimenti che, al contrario, tutelino il diritto alla vita – fondamentale e indisponibile – in ogni sua fase e condizione.
Marco Ferraresi